venerdì 27 aprile 2007

MORTE DI UN IMPIEGATO_____________ Lorenzo Allegrini - inserito nella rubrica "A mano sciolta" n. 4

Quando Enea si risvegliò una mattina dopo una notte di incubi gelidi, si ritrovò, nel suo pigiama a quadri, disteso nel mezzo di un deserto di cui, da qualunque parte guardasse, non riusciva a intravedere la fine. Era madido di sudore e le lenzuola di sabbia gli si erano infilate ovunque, nelle orecchie, in bocca, nei buffi calzoni a zompo. In terra, dormendo raccolto, aveva stampato col corpo una grande S, che il vento, che pareva urlato da un enorme phon, si affrettava a ricoprire. Dove diavolo sono?, pensò, Qui non c’è’ niente. Enea si era addormentato nel silenzio del proprio appartamento giusto un attimo prima e ora, un attimo dopo, prendeva coscienza in uno sterminato silenzio di luce, di mille e mille dune tutte uguali, che lo sguardo raccapricciava di vertigine e paranoia, arrampicandocisi su e giù, come si balla sulle montagne russe. Mi viene da vomitare. Enea notò con grande stupore che, di fianco a dove aveva dormito, c’erano le sue ciabatte; e avvertì solo allora un calore insopportabile di brace sotto le piante dei piedi, che se le dovette infilare con un balzo. Sospirò per il sollievo. Però subito la paura e la desolata solitudine gli morsero il collo, con la stessa violenza con cui il sole stava facendo del suo corpo una fiamma. Che caldo insopportabile. Enea cominciò a camminare. Non sapendo che direzione pigliare, si mise a inseguire le dune che gli sembravano più grandi, sperando di poter avvistare qualcosa da un punto più alto. Ma l’impressione lo ingannava di continuo: una volta montato in cima a uno di quei dossi, quello era alto lo stesso del precedente, e di quello prima ancora. Soprattutto non si distingueva nulla, a parte un tappeto identico a se stesso, una distesa di oro assassina. Anche le sue impronte sparivano immediatamente, come se pesasse qualche grammo in più di un’anima. Enea era in preda al panico. Aveva la gola bruciata. Affogava in incubi lucidi di sudore. Sono finito nei fianchi di una enorme clessidra, in cui il tempo mi intrappola, mi deteriora, mi uccide nel suo sconfinato relativismo senza accapezzo. Cercò l’uscita con gli occhi al cielo, ma anche quello era muto e immobile, uno specchio d’argento in cui nulla si rifletteva. Enea, disperato, cercava il conforto di un dio, ma dall’alto piombava solo un silenzio di cristallo. Eureka! All’improvviso dalla fessura sotto le palpebre Enea avvistò un cartello stradale, che usciva dalla sabbia come uno zampillo d’acqua fresca. Ci si avvicinò arrampicandosi in una corsa affannosa. Fabriano, indicava placido il cartello. E accanto stava una strada asfaltata, nera come il carbone, diretta forse verso la salvezza. Camminò con impazienza e nuovo vigore. Casa dolce casa, pensava Enea, attendendo un nuovo risveglio, stavolta nelle soffici coperte del proprio letto. Passo dopo passo, riconosceva la strada statale, superava il cartello che segnala l’ingresso nell’area urbana e si sentiva insolitamente leggero accanto ai capannoni delle fabbriche. La zuffa di palazzi scoloriti gli appariva un accapigliarsi festoso di balconi, e perfino i gas di scarico delle auto e dei camion gli sembravano fumi di ossigeno e menta. Ora che tutto tornava pallido e normale, Enea cominciava a sentirsi in imbarazzo per il suo insolito abbigliamento da notte e provava disappunto per l’inconveniente, che gli stava facendo perdere mezza giornata di lavoro: Me la scaleranno impietosamente dalle ferie. Ormai, tuttavia, la sete gli annodava la lingua ed era ancora la sua prima preoccupazione. Così, passando nel parco pubblico, Enea si chinò su una fontanella. Ma, quando fece per bere, l’acqua era più limpida dell’aria e non lo dissetava, gli sfuggiva veloce dal gozzo. È solo un miraggio!, lo canzonò il rubinetto coi suoi denti di ferro laccato. Per dio la fontana parla!, s’impaurì Enea, gridando. E tutto intorno il mondo si sgretolò di nuovo in sabbia fina e atomi di pietra. Ed Enea, con lui, crollò nello sconforto del vuoto e si sedette andando a fondo col sedere, stando bene attento a non affondare troppo, ché già sentiva le carezze dei granelli attirarlo nella fossa. Che caldo insopportabile!. Passarono dieci minuti. Poi cento giorni. E mille anni di nulla, forse molto meno, oppure infinitamente di più. Questo è il nitrito di un cavallo!, avvertì Enea come una eco lontana: un punto distante si andava facendo capocchia di spillo, poi noce, prima di mostrare la propria struttura di legno. Trainato da uno splendido cavallo d’avorio, si avvicinava un grande carro di zingari, tutto colorato di frange simili a code di arcobaleno. Enea gli corse incontro e vide che era carico di uomini e donne. Il gitano alla guida, un ometto conciato da saltimbanco, smontò e gli andò dirimpetto. Dove sono? E voi chi siete?, gli chiese Enea. E quello inchinandosi, Sono la morte, rispose, mostrando i denti sghembi e spezzati.